TRAMONTA IN EUROPA L’ERA DEGLI INCENERITORI

Comunicato di Sinistra Ecologista del dicembre 2004.

TRAMONTA IN EUROPA L’ERA DEGLI INCENERITORI
Sulla gestione dei rifiuti in Italia è ancora aperta la discussione su incenerire sì, incenerire no. Per anni, e ancora adesso, la lobby dei costruttori e dei gestori ha indicato il resto dell’Europa, in particolare Germania e Danimarca, come esempio da seguire, perché l’incenerimento occupava una fetta notevole della modalità di smaltimento. Da un anno il governo italiano ha concesso il massimo dei contributi (certificati verdi) all’incenerimento con recupero energetico dei rifiuti considerandoli fonte energetica rinnovabile, in contrasto con le direttive europee che ammettono al massimo a tali contributi solo la parte biodegradabile. Questo contributo, pari a circa euro 40 per ogni tonnellata di rifiuto indifferenziato bruciato, trasforma la modalità più costosa di smaltimento in quella più remunerativa, e in particolare diventa concorrenziale alla raccolta differenziata e riciclaggio dei rifiuti, che le norme europee, quelle italiane, nonché i principi fondamentali di sostenibilità ambientale indicano come prioritaria rispetto all’incenerimento con recupero energetico. In Europa, dopo anni di sostegno all’incenerimento, e un’attenta verifica sui suoi effetti, si è scelto di cambiare direzione: i contributi sono stati diminuiti (in Inghilterra è meno della metà rispetto all’Italia) o, nella maggior parte dei casi, tolti; ma soprattutto nello stato preso per tanti anni come riferimento, la Danimarca, è stata introdotta una tassa sull?incenerimento, perequandolo sostanzialmente alla discarica. Svezia, Olanda e Inghilterra stanno discutendo lo stesso provvedimento. Quali le ragioni di questo ripensamento? La prima motivazione è che si è constatato che l’incenerimento è un oggettivo ostacolo alla raccolta differenziata e al riciclaggio, pratica che anche sotto il profilo del bilancio energetico, oltre a quello ambientale, è vantaggiosa, perché il risparmio energetico dovuto al riciclaggio è maggiore dell?energia netta prodotta dall’incenerimento. La seconda motivazione è che si è constatato che il rendimento degli inceneritori è scarso, per cui il generico incenerimento dei rifiuti non può considerarsi una forma di recupero, ma semplicemente una forma di smaltimento. Infine vi sono motivazioni legate alla salvaguardia dell’ambiente e della salute dei cittadini. Basta considerare alcuni dati:
· da uno studio in Germania, bruciando tutti i rifiuti di 1 milione di cittadini, si produce diossina quanto ne produce il traffico veicolare di 6 milioni, ma mentre non si può fare a meno della mobilità, e cambiare le modalità di trasporto richiede tempo, l?incenerimento ha da subito delle alternative;
· al primo inceneritore a cui sono state applicati rilevamento in continuo, sono stati riscontrati emissioni di diossine di oltre 80 volte superiori ai limiti, mentre prima ciò non era stato rilevato dalle analisi di routine,
· l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha indicato in 280 picogrammi di diossina il quantitativo massimo assorbibile da una persona adulta: nelle migliori condizione di esercizio dell?ultima generazione di impianti, un inceneritore che brucia il rifiuto di 1 milione di abitanti produce circa 90 milioni di dosi all’anno, che si vanno a sommare a quelle rimaste degli anni precedenti perché la diossina ha un tempo di dimezzamenti di 5 anni. Solo l’Italia va controtendenza, pensando all?incenerimento come panacea alla gestione dei rifiuti e alla produzione di energia.
Natale Belosi – Responsabile settore rifiuti Sinistra Ecologista.

Costosi, pericolosi, sporchi inceneritori – di Federico Valerio (responsabile del laboratorio di Chimica Ambientale del CNR). – Maggio 2005
L’articolo a favore della termovalorizzazione pubblicato nella pagina di Speciale Ambiente della La Stampa del 28 aprile 2005, merita una dettagliata discussione, in quanto questo articolo fa parte della campagna mediatica a favore della termovalorizzazione promossa dal nostro governo ed avviata proprio in questi giorni. Si riportano brani integrali dell’articolo a cui seguono i nostri commenti. “Dando un’occhiata ai dati forniti da altre nazioni fortemente industrializzate e allo stesso tempo attente ai problemi ambientali, la percentuale di RSU destinata alla termodistruzione è infatti molto significativa: ad esempio in Giappone si raggiunge il 75%, il Danimarca il 65%, il Svezia il 55% in Francia e in Germania il 40%. E’ quest’ultimo il dato più basso che va messo a confronto con il 9,4% italiano.”
In una recente pubblicazione edita in Inghilterra dal Dipartimento per Ambiente, Alimentazione ed Agricoltura, per confrontare gli impatti ambientali delle diverse tecnologie disponibili per la gestione dei rifiuti (www.defra.gov.uk/environment/waste/rese­arch/health/pdf/health-report2.pdf) le percentuali di rifiuti inceneriti da questi stessi paesi risultano nettamente inferiori a quelle riportate nell’articolo: Giappone 21%, Danimarca 52%, Svezia 39%, Francia 33%, Germania 23%. Certamente negli ultimi anni Giappone, Francia e Germania hanno dovuto dismettere molti inceneritori sia perchè incompatibili con le nuove norme anti inquinamento, sia perchè riconosciuti responsabili di gravi contaminazioni di alimenti, sia per una diminuita disponibilità di rifiuti da incenerire, grazie al successo del riciclaggio. Inoltre, in alternativa all’incenerimento, si stanno affermando nuove tecniche biologiche di trattamento dei rifiuti indifferenziati per renderli inerti e compatibili con le nuove norme UE che, dal 2007, vietano di mettere a discarica i rifiuti tal quale. A questo riguardo, da una studio della Università di Hannover risulta che in GERMANIA nel 2002, 35 impianti per il trattamento meccanico biologico dei rifiuti erano già operativi, mentre altri 20 impianti erano prossimi alla loro entrata in funzione, con una capacità di trattamento complessiva di 3,7 milioni di tonnellate all’anno, circa 7 volte la capacità di trattamento dell’inceneritore di Brescia. Nell’elenco di nazioni termovalorizzate riportato dall’articolo di La Stampa, manca l’Austria, sempre citata per avere un avveniristico termovalorizzatore nel centro della sua capitale e mancano gli Stati Uniti. Queste assenze non sono casuale, in quanto le percentuali di rifiuti inceneriti in questi due paesi sono, rispettivamente, solo il 10 e il 16%. In particolare, negli Stati Uniti la pratica dell’incenerimento è in forte calo dalla fine degli anni ’80, sostituito dal riciclaggio che, nel 2005, in base a stima dell’EPA, è valutato pari al 32%. A conferma della rivoluzione in atto in tutto il mondo, tranne che in Italia, riportiamo le percentuali di riciclaggio realizzate nelle nazioni elencate, in base alle stime Inglesi, aggiornate al 2002: Percentuale di riciclaggio rifiuti: Danimarca 38%; Svezia 29%; Francia 21%, Germania 44%; Austria 55%.
In Italia, nel 2003, l’APAT stimava una raccolta differenziata al 21%. Poichè in Italia, gran parte della plastica raccolta in modo differenziato finisce negli inceneritori, insieme a quantità significative di carta, sempre raccolta in modo differenziato, la percentuale di riciclaggio vero del nostro paese è certamente nettamente inferiore ai valori raggiunti da gran parte dei paesi europei e dagli Stati Uniti, il 15% di riciclaggio, potrebbe essere il valore più vicino alla realtà italiana. “…Al fine di riaprire un dibattito sulla termovalorizzazione dei rifiuti solidi urbani, fondato su numerose e aggiornate basi tecnico scientifiche, il Ministero dell’Ambiente ha promosso, negli anni 2001-2004 un complesso studio sul tema della sostenibilità ambientale della termovalorizazione dei rifiuti solidi urbani. Lo studio è stato portato a termine da un gruppo di lavoro a cui hanno partecipato docenti, ricercatori e studiosi del dipartimento di fisica tecnica dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”, del dipartimento di ingegneria industriale dell’Università degli studi di Perugia e dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Aviano. ciò che è emerso è che la termovalorizzazione è una tecnica affidabile e sostenibile… che consente un significativo recupero energetico ed un contenimento sensibile delle emissioni di CO2, in contrapposizione al consueto smaltimento mediante discarica.”
Lo studio commissionato dal Ministero presenta un grave errore metodologico: quello di mettere a confronto la termovalorizzazione soltanto con la discarica del rifiuto indifferenziato. Se questo è stato il quesito del Ministero, l’Università di Roma e di Perugia hanno fatto un lavoro inutile. In Italia, a partire dal decreto del 5 febbraio del 1997 ( decreto Ronchi), che recepiva una direttiva europea del 1991, si è decretato l’inizio della fine delle discariche e dal 2007 (tra due anni) in nessuna discarica italiana si potranno conferire i rifiuti tal quale. Nessuno ha nostalgia per le discariche ed è probabile che anche mafia e camorra abbiano capito che in questo modo non si potranno fare più affari. Esistono da tempo numerosi studi che, in modo più corretto, hanno messo a confronto impatti ambientali e energetici delle diverse opzioni disponibili in alternativa alle discariche. Le tre opzioni principali sono la riduzione della produzione di rifiuti, il riciclo (e il compostaggio) dei materiali dopo il loro consumo e il recupero energetico della frazione residuale alle prime opzioni. Quest’ultimo è realizzabile con la cosiddetta termovalorizazione, ma anche con la digestione anaerobica ed uso energetico del biogas prodotto, con la pirolisi e la gasificazione. Inoltre c’è anche l’opzione di trattamenti meccanico- biologici finalizzati all’ inertizzazione biologica della frazione putrescibile e allo stoccaggio degli scarti inerti che rimangono dopo il recupero dei metalli. I vincitori del confronto tra le diverse opzioni sono noti da tempo: la riduzione e il riciclo, non a caso ai primi posti della graduatoria nelle normative europee. La riduzione della produzione di rifiuti stenta ad affermarsi in Italia, ma nel Trentino Alto Adige, con una riduzione della produzione pro-capite del 13%, riscontrato nel 2003, anche la riduzione comincia a dare segni di vitalità.

Invece, il riciclaggio ha da tempo superato brillantemente numerosi esami e si sta imponendo in tutti i paesi , tranne che in ITALIA. L’ultima vittoria del riciclaggio (primavera 2004) viene da uno studio commissionato “nientepopodimeno” che dalla Confederazione Europea dei Gestori di Termovalorizzatori (CEWEP) che ha chiesto di valutare l’impatto ambientale degli inceneritori (www.cewep.com/press/index.html). Lo studio, eseguito da una società di consulenza svedese (PROFU), dopo l’esame di settanta diversi studi di livello internazionale ha concluso: “Per materiali puliti, raccolti alla fonte in modo differenziato, il loro riciclaggio, in genere,provoca un minore impatto ambientale rispetto agli inceneritori”. Questo impatto riguarda l’emissione di gas serra, piogge acide, precursori dello smog fotochimico, eutrofizzazione delle acque ed emissione di composti tossici. La gran parte degli studi esaminati sono categorici: ” Per tutti questi fattori ambientali il riciclo di carta e plastica composta un minore impatto ambientale rispetto alla loro termovalorizzazione”. Questo significa che con la raccolta differenziata “porta a porta”, non solo si raggiungono raccolte differenziate superiori al 60% come avviene nel Trevigiano, nel centro storico di Venezia, a San Francisco, ma si ha complessivamente un impatto ambientale nettamente inferiore a quello dei più moderni termovalorizzatori, a parità di materiale trattato. Per quanto riguarda l’emissione di gas serra, un’altro studio, commissionato nel 2001 dalla Unione Europea ha messo a confronto gli effetti delle diverse strategie di trattamento rifiuti, in precedenza elencati, arrivando alle seguenti conclusioni:
– Il sistema che produce la maggiore emissione di gas serra è il riciclaggio e il compostaggio di materiali raccolti in modo differenziato, con una riduzione di 461 chili di gas serra per ogni tonnellata di materiali trattati.
– Subito dopo vengono i trattamenti meccanico biologici con successivo stoccaggio dei materiali inerti residui alla bioossidazione e al riciclo di metalli e inerti: meno 329 chili di gas serra per tonnellata trattata.
– La produzione di elettricità dai rifiuti produce una riduzione di soli 10 chili di gas serra, in quanto l’unico combustibile che val la pena di bruciare nei termovalorizzatori sono le plastich che hanno il difetto che il carbonio presente nelle loro molecole è tutto fossile, in quanto ricavato dal petrolio.
A fronte di un così elevato risparmio di gas serra del riciclaggio esiste un altrettanto vantaggio nel risparmio energetico del riciclo rispetto alla termovalorizzazione. In uno studio comparativo effettuato da R.A Denison (Environmental Life-Cycle comparisons of recycling, landfilling and incineration. Ann. Rev. Energy Environ 1996, 21 :191- 237), l’autore stima che il riciclaggio, evitando la produzione dalle materie prime dei prodotti riciclati, permette un risparmio complessivo di 4.234.000 chilocalorie per ogni tonnellata di materiali riciclati. A confronto, la termovalorizzazione con produzione di elettricità di quella stessa quantità di materiali post consumo, permette di risparmiare (per combustione evitata di combustibili fossili) solo 1.194.000 chilocalorie. “Dal punto di vista sanitario se da un lato alcuni dati epidemiologici registrati negli anni passati hanno fatto supporre rischi sanitari connessi alla presenza di impianti di vecchia generaziione, dall’altro si può affermare che, grazie ai limiti estremamente bassi imposte alle emissioni, tali rischi diminuiscono notevolmente fino ad essere praticamente azzerati per ciò che concerne i rischi derivanti dalle emissioni cancerogene e che siano del tutto trascurabili o comunque paragonabili ad altri rischi presenti e tranquillamente accettati nella vita quotidiana, per le emissioni cancerogene, come ad esempio, la diossina.”
Gli studi sugli effetti sanitari correlabili alle emissioni di inceneritori per rifiuti urbani sono molto pochi e solo in rari casi condotti in modo completo, con stime affidabili della reale esposizione ad emissioni degli inceneritori. I migliori sono quelli realizzati in Francia, con riferimento all’inceneritore di Besancon e i risultati sono stati pubblicati nel 2000. I risultati non sono ancora definitivi. Sono infatti in corso studi sul contenuto di diossina nel sangue dei casi e dei controlli, per verificare se i soggetti colpiti da i sarcomi, riscontrati in eccesso in chi risiedeva nella zona di massima ricaduta dei fumi di questo impianto, siano stati anche esposti, attraverso gli alimenti, a quantità anomala di diossine attribuibili all’inceneritore. Questo impianto è stato realizzato nella metà degli anni ’70 ed se è vero che la concentrazione di diossine nei suoi fumi è nettamente maggiore di quella che si riscontra negli attuali impianti di termovalorizzaqzione, è anche vero che si trattava di un “piccolo” inceneritore che trattava solo 67.000 tonnelate di rifiuti all’anno, otto volte meno dell’inceneritore di Brescia. Le economie di scala a cui sono costretti i nuovi termovalorizzatori stanno aumentando enormemente la loro taglia per contenere gli aumenti dei costi necessario per ridurre gli inquinanti che loro stessi producono. Questo è il motivo della triplicazione della capacità di trattamento dell’inceneritore di Brescia e della recente proposta di raddoppiare l’impianto di Torino e Modena. Questo aumento di capacità, a parità di concentrazione di inquinanti nei fumi, comporta un proporzionale aumento delle immissioni nell’ambiente e questo è di rilevante importanza per la valutazione dei rischi connessi con l’esposizione a sostanze persistenti e accumulabili lungo la catena alimentare quali metalli, diossine, furani e policloridifenili. Nel 2003 l’inceneritore di Brescia ha termovalorizzato 552.138 tonnellate di rifiuti (otto volte di più dell’inceneritore di Besancon) con una emissione giornaliera dichiarata di 55.000.0000 picogrammi di diossine e furani (circa 40 nanogrammi per ogni tonnellata di rifiuti trattati). La quantità di diossine che l’inceneritore di Brescia emette giornalmente, equivale alla dose tollerabile giornaliera di diossina di 395.000 adulti (Brescia fa 188.000 abitanti) e a questo inquinamento non obbligato, si deve aggiungere l’inquinamento prodotto dal trasporto delle 552.138 tonnellate di rifiuti e dal trasporto delle circa 140.000 tonnellate di ceneri prodotte dall’inceneritore che sono avviate alle discariche. Una di queste discariche si trova nel centro della Germania, ed è una miniera di salgemma in cui possono essere stoccati in sicurezza i rifiuti tossici prodotti dall’inceneritore, ovvero le ceneri leggere prodotte dalla pulizia dei fumi e in cui si trovano concentrati metalli pesanti, idrocarburi policiclici aromatici, diossine, furani, policlorobifenili. Se Brescia e la Lombardia avessero puntato sul riciclo e sulla ossidazione biologica di queste 552.138 tonnellate di Materiali Post Consumo, l’impatto ambientale sul territorio bresciano sarebbe stato nettamente inferiore a quello attualmente prodotto dall’inceneritore. E il conseguente impatto sanitario sarebbe ancora più trascurabile di quello che gli esperti hanno attribuito al moderno termovalorizzatore.
[ForumAmbientalista] http://www.forumambie…­ posta@forumambientalista.it

GENNAIO 2006 – Gentili interlocutori, invio per conoscenza un interessante documento prodotto dal WWF Lazio con accenni alla situazione trevigiana e all’ultima proposta del Priula: il PaP dei rifiuti speciali. Cordiali saluti, Gianluigi Salvador.

A CHI SERVONO GLI INCENERITORI?
Il caso del mostruoso inceneritore di Brescia, analizzato nei dettagli da Marino Ruzzenenti nel suo libro del 2004 ?L?Italia sotto i rifiuti? >> (link a http://www.wwf.it/Laz…­) è lo spunto di riflessione che conduce alla domanda: ?ma se effettivamente ormai esistono metodi di gestione dei rifiuti urbani più economici ed ecologici rispetto agli inceneritori (il riciclaggio a partire da una raccolta differenziata porta a porta), perché questi continuano ad essere proposti con tanto accanimento? A chi servono??
Forse una chiave di lettura importante per rispondere a questa domanda si trova a pagina 118 di quel libro: ?la vicenda di Brescia ? fa comprendere anche ad altre realtà locali come si possa facilmente trasformare un impianto creato per trattare rifiuti urbani di bacino in un inceneritore per rifiuti speciali di qualsiasi provenienza?.
In effetti, come riferisce Ruzzenenti, nella terza linea dell?inceneritore di Brescia, inizialmente propagandata come impianto a ?biomasse? (legna da ardere, scarti vegetali dai boschi montani o materiali analoghi) sono stati autorizzati materiali ben diversi (Delibera Giunta comunale di Brescia PG. 3935 del 30 gennaio 2002), inclusi rifiuti speciali da lavorazione industriale, potenzialmente pericolosi, purché con potere calorifico ?interessante?. Tra questi materiali Ruzzenenti ricorda:
 pulper di cartiera;
 tinture e pigmenti;
 pitture e vernici di scarto;
 materiali isolanti;
 pellicole per fotografie;
 apparecchiature fuori uso;
 cavi;
 CDR.
Si è inoltre registrato il tentativo di inserire tra questi rifiuti il cosiddetto fluff, rifiuto industriale costituito dalla ?frazione leggera e polveri? di scarto della frantumazione delle carcasse di auto (contenente quindi plastiche, stoffe, vernici, materiali vari, ?), che durante la combustione potrebbe potenzialmente generare grandi quantità di PCB e diossine. La Regione Lombardia in seguito non ha ammesso al trattamento questo materiale, dalla caratterizzazione piuttosto controversa (Pericoloso? Non pericoloso?). In ?compenso?, superando il concetto della prossimità tra luoghi di produzione ? smaltimento, l?impianto è stato autorizzato a trattare anche rifiuti speciali (esclusi gli ospedalieri) provenienti al di fuori della Provincia di Brescia (Delibera Giunta Regione Lombardia n.VII/14734 del 24 ottobre 2003); e tutto ciò grazie anche al Decreto Ronchi. Infatti, mentre per i rifiuti urbani non pericolosi il principio dell’autosufficienza è applicabile anche sotto il profilo del divieto di smaltimento extraregionale, per le altre tipologie di rifiuto (rifiuti urbani pericolosi e rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi) prevale, in ragione delle loro caratteristiche, il diverso criterio della necessità di impianti appropriati e ?specializzati? per il loro smaltimento e, quindi, possono essere smaltiti anche extraregione. In questo periodo di crisi produttiva nel Nord Est, sotto il ricatto indiretto della delocalizzazione, vengono proposti, nella Provincia di Treviso, due inceneritori industriali appositamente sovradimensionati (ne sono richiesti due per ottenerne uno?), con argomentazioni unicamente economiche, trascurando il problema della salute. Questi due inceneritori industriali, al contrario del caso di Brescia, prevedono il trattamento soprattutto di rifiuti speciali, tra i quali vengono considerati anche gli urbani: si tratta di 15 classi di codici CER su 20 totali, tra le quali compaiono: 02 (agricoli umidi) 03 (legno e carta, etc), 04,05, 07, 08, 09, 12, 13, 15, 16, 17,18,19, 20 (urbani). Probabilmente in questo caso i rifiuti urbani servono ad assicurare all?impianto quella ?alimentazione di base? proveniente dalle famiglie, che potrebbe poi essere integrata da ?commesse? provenienti dal resto d?Italia?.
Dunque forse è opportuno collegare l?argomento inceneritori anche al tema dei rifiuti industriali. Come sappiamo i dati su questo settore sono assolutamente incerti e frammentari, e sono in media almeno 3 volte la quantità dei rifiuti urbani: nel 2003 si sono registrate 100,5 milioni di tonnellate inclusi gli inerti contro 30 milioni di tonnellate/anno di RSU Fonte: Rapporto Rifiuti 2005 di APAT-ONR (Agenzia Protezione Ambiente e servizi Tecnici; Osservatorio Nazionale Rifiuti). Solo che di quelli industriali, classificati come “speciali” (di cui il 5-7% pericolosi) non si sente mai parlare. Le incertezze riguardano sicuramente la stima della produzione annua di questo tipo di rifiuti: questo è dovuto sia all’assenza di alcuni rifiuti dalle definizioni, sia a diversi esoneri, per alcune categorie (piccole imprese), dall?obbligo di presentare ogni anno le dichiarazioni attraverso il formulario di identificazione (MUD – Modello Unico di Dichiarazione), introdotti dal Decreto Ronchi, sia ad ?una percentuale non facilmente quantificabile di evasioni dichiarative?. Ancora il Rapporto Rifiuti 2005 di APAT-ONR riporta, per diversi settori produttivi, una stima per il biennio 2002-2003 della percentuale di copertura del dato MUD (secondo il Sole24Ore il MUD ha un?evasione del 30% circa): a livello nazionale il tasso di copertura nel biennio 2002 ? 2003 risulta pari al 42% ma va comunque evidenziato che l?analisi dei dati rileva una diminuzione in alcuni casi significativa del tasso di copertura, che nel 2001-2002 era al 46% (Volume2 Tabella 1.1 pag. 11-13); si precisa inoltre che questo dato può essere un po? sottostimato. La stima esatta è difficile anche perché il rifiuto nel percorso tra la produzione e lo smaltimento può cambiare natura, definizione e classificazione in base ai trattamenti subiti, e non sempre si riesce a controllare il ciclo. Tuttavia la destinazione finale dei rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi è per oltre il 25% rappresentata dalla discarica (dati 2003 Volume2 Figura 1.21 pag. 50).

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